Corte dei Conti, sentenza 11/05/2017 n° 100
La Sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia Romagna della Corte dei Conti (11 maggio 2017, n. 100), interpretando anche le norme della nuova Legge n. 24/2017 in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, chiarisce che, ai fini della perseguibilità in sede contabile di un medico accusato di malpractice, l’inosservanza delle linee guida non dimostra, di per sé, l’esistenza dell’elemento soggettivo della colpa grave, né, tanto meno, la necessaria sussistenza di un nesso causale tra il loro mancato rispetto e l’evento dannoso, con la conseguenza che non si può attribuire in modo certo ed automatico la responsabilità al sanitario che se ne è discostato.
Secondo i giudici contabili, infatti, l’esimente di cui all’art. 3, primo comma, Legge n. 189/2012 (oggi abrogato e sostituito dall’art. 6, secondo comma, della Legge n. 24/2017) può tutt’oggi operare, nella formulazione del nuovo articolo 590-sexies c.p., solamente sul piano della responsabilità penale.
Ne consegue che, nel caso della responsabilità amministrativa per danno sanitario, va dimostrata la colpa grave nel caso specifico e vanno indicati gli elementi di prova in base ai quali, sul caso concreto, si ritiene che vi sia stata violazione delle buone pratiche mediche.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI: | |
Conformi: | Cass. pen., sentenza n. 28187/2017 Corte dei Conti, sez. giur. Emilia Romagna, sentenza n. 49/2016 Corte dei Conti, sez. giur. Emilia Romagna, sentenza n. 74/2016 |
Difformi: | Non si rinvengono precedenti |
Il fatto
Nel maggio 2009 un uomo si presentava, accompagnato dalla moglie, al Pronto Soccorso di un ospedale di un Comune emiliano, accusando forti dolori addominali. Dopo la somministrazione di un farmaco contente ketoprofene, disposta da un medico della struttura, il paziente rimaneva vittima di un terribile shockanafilattico, con conseguente decesso intervenuto nel volgere di pochi minuti.
Di seguito, le risultanze di una consulenza tecnica richiesta dalla Procura della Repubblica nel corso delle successive indagini preliminari rendevano noto che l’uomo era allergico all’acido acetilsalicilico e al ketoprofene, circostanza desumibile da una dichiarazione del medico curante, e che, pertanto, il decesso era stato causato dall’assunzione della predetta sostanza. Gli eredi avanzavano allora, in via stragiudiziale, una domanda di risarcimento danni nei confronti dell’azienda sanitaria. Con successivo accordo transattivo, la ASL si impegnava a versare la somma di euro 300.000,00, oltre spese legali, onde evitare un giudizio in sede civile. Frattanto, il procedimento penale instaurato a carico del medico del Pronto Soccorso terminava con la sentenza di condanna, poi divenuta irrevocabile per il reato di omicidio colposo. Il menzionato accordo transattivo con gli eredi del defunto generava, al netto della franchigia contrattuale (ossia, dell’importo non coperto dalla polizza assicurativa) prevista con la compagnia di assicurazione dell’azienda sanitaria, un esborso effettivo di euro 237.500,00, il cui rimborso veniva pertanto richiesto in giudizio al medico a titolo di danno erariale.
La decisione
La Procura contabile, nel domandare la condanna del medico (ritenuto unico responsabile del decesso) al risarcimento del danno, aveva evidenziato, nello specifico:
a) che la consulenza tecnica richiesta dal Procuratore della Repubblica in sede di indagini preliminari aveva confermato che il decesso del paziente era stato cagionato a causa della somministrazione di un farmaco senza avere verificato la sussistenza di allergie, come al contrario espressamente indicato e richiesto nelle linee guida; b) che il mancato rispetto delle linee guida avrebbe automaticamente dimostrato la colpa grave del medico, sul presupposto che l’art. 3, L. n. 189/2012 – oggi abrogato e sostituito dall’art. 6, comma 2, della L. n. 24/2017– esclude la responsabilità penale per colpa lieve, individuata come pedissequo rispetto delle suddette linee guida. |
La convenuta (la dottoressa del Pronto Soccorso), al contrario, si era costituita in giudizio contestando, nel merito, la sussistenza della colpa grave, ed eccependo:
a) che la perizia richiamata dalla Procura contabile non proveniva da un consulente tecnico d’ufficio nominato dal Giudice e non era stata resa nel contraddittorio tra le parti nel corso del dibattimento penale, e che, dunque, costituiva una mera relazione del perito di parte, nominato dal Pubblico Ministero penale nel corso delle indagini preliminari; b) che la ricostruzione dell’accaduto come elaborata dalla Procura contabile era da contestare nella sua interezza e che la propria condotta era stata, invece, conforme alle linee guida fornite in tema di somministrazione di FANS dall’Agenzia del Farmaco e, come tale, priva di negligenza, imprudenza o imperizia. |
Ebbene, la Corte dei Conti ha ritenuto infondata, rigettandola, la domanda attrice avanzata dalla Procura contabile regionale, accogliendo, anzitutto, l’eccezione della dottoressa convenuta in relazione al valore probatorio da assegnare alla consulenza tecnica di parte del Pubblico Ministero penale nel procedimento per il reato di omicidio colposo svoltosi a carico del medico.
Si è dichiarata, infatti, la non identificabilità del suddetto documento alla stregua di una consulenza tecnica di ufficio: nell’interpretazione dei giudici contabili, infatti, esso è stato considerato un mero “atto di parte”, e, come tale, incapace di assumere “il valore chiarificatore e probatorio della perizia esperita in dibattimento penale, dopo il rinvio giudizio innanzi al Collegio giudicante ai sensi dell’art. 225 c.p.p.”, e neppure il “valore probatorio che nel processo civile assume una C.T.U., proprio per la strutturale mancanza di contraddittorio”.
Semmai, si legge in pronuncia, detta relazione può, nella fattispecie, “esser valutata liberamente dalla Sezione giudicante, secondo prudente apprezzamento”, quale allegazione probatoria di parte, da cui poter trarre elementi di giudizio per quanto attiene alla valutazione della causa del decesso del paziente; cosa che, ad ogni modo, non elimina, secondo la Corte dei Conti, la necessità di verificare se la morte sia stata determinata da colpa grave del medico.
Tutto ciò premesso, l’attenzione della Sezione giurisdizionale si è poi soffermata (ed ecco il fulcro della decisione in commento) sul richiamo alle linee guida operato dalla Procura contabile e sul loro ruolo.
Ebbene, sulla scia di recenti precedenti giurisprudenziali della medesima Sezione dell’Emilia Romagna (sentenze nn. 49/2016 e 74/2016), i giudici hanno chiarito che il suddetto richiamo non è sufficiente, da solo, a dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo minimo per configurare la responsabilità erariale del medico, e che, anzi, non può apparire convincente l’assioma secondo cui qualsiasi condotta difforme dalle linee guida sarebbe capace, di per sé, di dimostrare l’esistenza dell’elemento soggettivo della colpa grave.
Secondo i magistrati emiliani, in sintesi, la disciplina contenuta nelle norme in materia di esercizio delle professioni sanitarie non impone affatto “l’osservanza assoluta e acritica delle linee guida riconosciute dalla comunità scientifica, a pena di incorrere in automatiche quanto pericolose responsabilità sul piano amministrativo”.
L’obiettivo, piuttosto, sarebbe quello di “offrire un modello comportamentale, a vantaggio del medico o dell’operatore sanitario, opponibile da quest’ultimo in caso d’imputazione per un reato colposo, al fine di confutare la contestazione di responsabilità penale.
Un modello comportamentale, dunque, che potrebbe essere fatto valere solamente dal medico o dall’operatore sanitario a proprio vantaggio per contrastare la pretesa punitiva in ipotesi accusatoria di un reato colposo, laddove egli ritenesse di aver seguito norme comportamentali valide a escluderne la punibilità, e non certo a discapito dello stesso, sul piano della responsabilità civile o amministrativa, qualora la condotta del sanitario non fosse stata aderente a dette regole.
Di conseguenza, secondo i giudici contabili, non si può ritenere (come invece sostenuto, nella circostanza, da parte attrice) gravemente colpevole il medico che non si sia attenuto alle linee guida, facendo sorgere, di fatto, in maniera automatica, la dimostrazione dello stato soggettivo minimo per la perseguibilità in sede contabile unicamente a seguito alla semplice inosservanza di dette raccomandazioni.
Le ragioni di un simile convincimento possono cogliersi, secondo la Corte dei Conti, previa disamina del contenuto dell’art. 3, comma 1, L. n. 189/2012, oggi abrogato dall’art. 6, comma 2, della nuova L. n. 24/2017in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie.
L’art. 3, comma 1, appena citato stabiliva, come noto, che l’esercente la professione sanitaria il quale nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve.
Ebbene, nella fattispecie tale norma era stata assunta dalla Procura contabile a parametro normativo quale valutazione dell’elemento soggettivo nei casi di malpractice, ma secondo la Sezione emiliana esso “si riferisce espressamente alle ipotesi colpose delle fattispecie penali cui possono incorrere i medici, e non può trovare acritica applicazione anche nel giudizio di valutazione della colpa grave avanti alla Corte dei Conti”.
Ad ulteriore conferma di tale assunto, la pronuncia insiste ricordando che il richiamato art. 3, comma 1 introduceva nell’ordinamento giuridico una valutazione operante solamente nell’ambito della responsabilità penale e unicamente per le fattispecie colpose (per le quali, in ambito sanitario, con l’art. 6, comma 1, L. n. 24/2017 è stato inserito il nuovo art. 590 sexies c.p., che prevede la non punibilità del medico, limitatamente a condotte connotate da imperizia, se sono state seguite linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali), maggiormente frequenti nella professione sanitaria.
Nella vigenza del citato art. 3, primo comma, pertanto, spettava al medico cui fosse attribuita una responsabilità penale colposa allegare le linee guida alle quali la sua condotta si sarebbe conformata, al fine di consentire al Giudice, nel processo penale, di verificare la correttezza e l’accreditamento presso la comunità scientifica delle pratiche mediche indicate dalla difesa, e l’effettiva conformità ad esse della condotta tenuta dal medico nel caso di specie.
La funzione delle linee guida, oggi riordinata dalla Legge n. 24/2017, si manifestava dunque, secondo i giudicanti, sul piano meramente difensivo, nel senso che esse potevano costituire un valido argomento per far attivare, sempre nel caso di un procedimento penale, l’esimente di cui all’art. 3, comma 1, L. n. 189/2012.
Ebbene, il Collegio prende sul punto una posizione netta, pronunciandosi nel senso che detta esimente può tutt’oggi operare (nella nuova formulazione di cui all’art. 590 sexies, comma 2, c.p., secondo cui “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”) solamente sul piano della responsabilità penale, invocabile unicamente dal sanitario cui sia imputato un reato colposo conseguente all’esercizio della professione medica onde contrastare la pretesa punitiva del Pubblico Ministero ordinario.
Le argomentazioni addotte sul punto dalla giurisprudenza contabile portano allora alla conseguenza che, nel caso della responsabilità amministrativa per danno sanitario, deve essere dimostrata la colpa grave nel caso specifico e devono essere indicati gli elementi di prova in base ai quali, sul caso concreto, l’accusa ritiene che vi sia stata violazione delle buone pratiche mediche.
Il fatto che esistano particolari linee guida che si pongono, in astratto, in contrasto con la condotta del medico nel fatto che ha determinato una lesione al paziente non può dunque essere considerato, secondo la Corte dei Conti, un fattore sufficiente, di per sé, a dimostrare che la condotta del sanitario sia sicuramente connotata da colpa grave.
Ciò non bastasse, i giudici emiliani adducono altre due ragioni atte a scardinare il non condivisibile assunto ai sensi del quale il medico che non si sia attenuto alle raccomandazioni contenute nelle linee guida debba essere automaticamente perseguito sotto il profilo contabile.
La Corte evidenzia che il concetto di colpa grave si differenzia tra l’ambito penalistico, nel quale per la suddetta esimente rileva la sola imperizia, e quello giuscontabile, in cui la colpa grave del medico sussiste anche per errori non scusabili per la loro grossolanità o l’assenza delle cognizioni fondamentali attinenti alla professione o il difetto di un minimo di perizia tecnica e ogni altra imprudenza che dimostri superficialità: ciò, si legge in sentenza, introduce una valutazione ad ampio spettro dell’elemento soggettivo nella responsabilità medica sul piano erariale.
L’ultima argomentazione addotta dai giudici contabili è quella secondo cui per la valutazione del nesso causale tra la condotta dei sanitari e il danno indiretto per malpracticemedica, non è sufficiente contestare una condotta difforme dalle linee guida prodotte in giudizio dalla parte pubblica, ma spetta al Pubblico ministero la dimostrazione positiva che le scelte diagnostiche e chirurgiche operate nel caso concreto si sono poste quale causa efficiente diretta del disagio arrecato al paziente, che ha portato alla richiesta di risarcimento del danno liquidato dalla struttura aziendale pubblica.
In estrema sintesi, insomma, la sola condotta difforme alle linee guida non è sufficiente per sostenere che vi sia nesso causale tra il loro mancato rispetto e l’evento dannoso.
La dimostrazione deve, piuttosto, essere calata nel caso concreto in cui si discute, e la semplice difformità tra linee guida e condotta del medico può al massimo ritenersi indice rivelatore, da corroborare però con altre risultanze di fatto, da verificarsi nell’evento storico che ha determinato la fattispecie dannosa.
Per inciso, non si può non evidenziare come tale orientamento della giurisprudenza contabile (ai sensi del quale, come già ripetuto, le linee guida in contrasto con la condotta del medico non sono sufficienti a dimostrare che la condotta del sanitario sia connotata da colpa grave, e sia pertanto necessario mettere insieme il rispetto delle linee guida e l’attenzione al caso concreto) coincide con quello, recentissimo, espresso dalla IV Sezione della Corte di Cassazione penale (sentenza n. 28187/2017, depositata lo scorso 7 giugno), secondo cui le raccomandazioni generali contenute nelle linee guida devono essere pertinenti alla fattispecie concreta: occorre, cioè, verificare se dette linee guida siano state attualizzate in modo corretto nell’ambito del rapporto terapeutico con attenzione particolare al caso concreto.
La Cassazione, nella circostanza, adduce un semplice ma chiarificatore esempio di come il rispetto delle linee guida, da solo, non sia sufficiente: “un chirurgo imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida, e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale. In casi del genere, intuitivamente ed al lume del buon senso, non può ritenersi che la condotta del sanitario sia non punibile per il solo fatto che le linee guida di fondo siano state rispettate. Una soluzione di tale genere sarebbe irragionevole, vulnerabile il diritto alla salute del paziente e quindi l’art. 32 Cost.”.
L’osservanza pedissequa delle linee guida, in sintesi, sarebbe in conflitto con l’articolo 32 della Costituzione: si tratterebbe infatti di un radicale depotenziamento della tutela della salute.
Ecco perché la Cassazione ritiene (e la Corte dei Conti concorda) che si debba mettere insieme il rispetto delle linee guida e l’attenzione al caso concreto.
Pertanto, tornando al caso in esame, la Procura contabile, per dimostrare la responsabilità amministrativa del medico convenuto, avrebbe dovuto dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi che ne stanno alla base, in particolare la colpa grave, che deve essere verificata sulla condotta concretamente tenuta dalla convenuta.
Tre circostanze, al contrario, comportano nella fattispecie, secondo il Collegio, il respingimento della richiesta di risarcimento, per non avere la Procura attrice dimostrato la colpa grave del medico del Pronto Soccorso:
a) tra il momento dell’accettazione del paziente, l’ingresso in ambulatorio e l’applicazione della terapia con ketoprofene, l’intera vicenda si è consumata nel giro di pochi minuti, nell’ambito di un reparto d’urgenza ospedaliero, dove le prestazioni dei medici, degli infermieri e di tutto il personale di supporto devono esser rese in tempi rapidi e nei confronti di numerosi utenti e familiari, comprensibilmente in stato d’agitazione collegato alla patologia o alla gravità dei sintomi percepiti; b) la scheda di triage non era in possesso del medico convenuto al momento della visita, come risultato dalle dichiarazioni dell’operatrice di triage in Pronto soccorso e dalla scheda di accesso al Pronto soccorso; c) le annotazioni del medico di base del paziente deceduto che indicavano le allergie sofferte non erano disponibili per il medico sotto accusa al momento della visita. |
In conclusione, la Corte ha ritenuto che, nella circostanza, la gestione del paziente da parte del medico convenuto non sia stata superficiale e neppure priva delle attenzioni che rientrano nel normale esercizio della professione medica, tenuto conto della fisiologica concitazione del reparto in cui la convenuta ha prestato la propria attività professionale. Queste circostanze inducono a escludere la esistenza della colpa grave, e a determinare il rigetto delle domande della Procura attrice, per l’insussistenza della responsabilità amministrativa della convenuta dovuta alla mancanza dell’elemento soggettivo minimo richiesto.
Esito del ricorso
Rigetto della domanda